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venerdì 27 marzo 2009

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tratto da “ARANCIO AMARO”

Sono molto affezionata a questo mio racconto. Ve ne lascio un piccolo assaggio in attesa di creare un file che vi permetterà di leggerlo. In effetti non l’ho ancora pubblicato perché spero sempre di riuscire a farlo partecipare con successo a qualche concorso letterario, prima di vincolarlo inesorabilmente con una casa editrice.

Che dite, è troppo presuntuoso?

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(Tutti i diritti letterari di quest’opera sono di esclusiva proprietà dell’autore)

Nota dell’Autore

Questo racconto è nato di getto, in pochi mesi e poi è stato abbandonato e ripreso solo più tardi, quando ha assunto l'aspetto che ha adesso.

È la storia di due solitudini. Un padre ed un figlio che non si conoscono e che, nonostante tutto, sono intrappolati nella medesima malinconia del vivere, priva di veri affetti ed impossibilitati ad amare.

Il male di vivere - concetto che mi ha sempre affascinato! - si alimenta, nelle righe di questo libro, come una malattia che mina il fisico e che si trasmette geneticamente, in una spirale di assenza di affetto che rende ogni uomo un'isola sperduta ed irraggiungibile. Oppure, se vogliamo usare un altro paragone che io amo molto, egli è simile ad una stella: splendente e lontana potenziale portatrice di vita e di morte.

L'incontro è anch'esso all'insegna della solitudine. Esso si svolge attraverso delle lettere, le quali sono lontane dal destinatario e da colui che le legge, perché vergate in un inizio che è distante nel tempo. Figlio e padre trascorrono la vita distanti ed indifferenti, chiusi in un dolore che non comprendono, né sanno distinguerne le cause e solo alla fine, nella morte del vecchio, il cerchio si spezza. I fantasmi non hanno presa sul figlio ed all'arrivo dell'alba, essi scompaiono.

Ma non ci è dato conoscere oltre…

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CAPITOLO I

Il sole è pallido e fiacco.

Lo è sempre in questa stagione.

Le foglie hanno già cominciato a cadere e, mentre gli alberi di cachi sono carichi di frutta matura, i miei adorati aceri sono giallo oro ed il leggero vento li spoglia come dolce pioggia.

È un altro giorno, uno come tanti, eppure l’aria è più frizzante di ieri ed il cielo è terso. Sembra che il tempo si sia dilatato ed abbia rallentato la sua corsa, come accade prima di una pesante e silenziosa nevicata.

«Amo profondamente l’abbraccio dolce che lega l’autunno all’inverno. Qui non è mai violento. Il passaggio è lineare e graduale e pieno di poesia.

Anche le fate, che vivono fra l’erba, si colorano di rosso e nelle notti fredde e limpide le puoi vedere danzare nell’aria, fra le foglie d’edera ormai secche e le vecchie spine dei rovi spogli.»

«Ormai questo è il mio novantasettesimo inverno.

In questa casa buia, le fate del giardino sono la mia unica compagnia.

Il fuoco crepita stancamente nel camino. La legna riluce rossa di fiamma ed il suo profumo è chiaro nell’aria, oggi come ieri.»

«Mi alzo a fatica ed aggiungo altra legna al fuoco. Ogni volta mi sorprendo come la mia mente riesca a pensare veloce e compia i movimenti che il mio corpo è lento ed impacciato ad eseguire. Mi appoggio al camino: ho fatto pochi passi, ma sono già stanco.

Getto altro cibo per il fuoco.

Guardo la mia mano alla luce della fiamma. È gonfia e rugosa: è la mano di un vecchio.

Mi liscio i capelli, che sono radi.

La mia bocca è secca: comprendo di aver sete, ma non riesco a sentirla.

Da molto tempo il mio corpo è divenuto sordo alle sue stesse necessità. Il mio medico è preoccupato per me, vorrebbe che andassi a vivere con mio figlio, dice che ho bisogno di essere guidato e controllato.

“Potresti addormentarti davanti al fuoco” continua a ripetermi non appena ne ha l’opportunità.

“e non ti accorgeresti nemmeno del tempo che passa...”

Eppure è così che vorrei morire: in un giorno di inverno, davanti al fuoco, seduto ed addormentato dentro questa stanza.»

«Sto aspettando impaziente che le fate vengano a prendermi.»


IL VECCHIO

È un vecchio, il signore che abita dentro quella casa gialla.

La mattina, quasi all’alba, lo vedi passeggiare per il giardino, in mezzo all’erba incolta. È magro e sottile, come il bastone a cui si appoggia.

Una volta al mese viene il figlio.

Gli taglia l’erba del giardino, gli fa la spesa, spazza il portico e gli pulisce il bagno e la cucina.

Non scambiano mai una parola. Il vecchio è scontroso ed il figlio è brusco.

Eppure, quando quella giornata finisce ed il figlio se ne va, il vecchio rimane sulla porta a guardare la macchina sparire dietro la curva e poi rimane ancora lì, per anche un’ora, con lo sguardo perso.

Sembra quasi che per lui il tempo non abbia alcuna importanza...

È perché ne ha poco ancora? O perché ne ha già visto scorrere tanto?

Una volta alla settimana, invece, viene il medico a trovarlo. Si chiudono in casa, il vecchio tira le tende e sempre il medico si ferma a mangiare.

Con lui, il vecchio è chiacchierone: parla e parla in continuazione, a volte sciolto ed a volte - ma sempre più spesso - con fatica. Ma il vecchio pensa: ha la mente lucida. Medita ed i suoi discorsi sono ponderati e sviscerati. La sua mente è giovane, imprigionata in un corpo che non ce la fa più a seguirla.

Ma più spesso quel vecchio che abita nella casa gialla è solo. E quando è solo, pare una mummia. A parte le sue passeggiate mattutine nel giardino, se ne sta sempre seduto accanto al fuoco acceso.

Consuma tanta di quella legna che, immancabilmente, a metà inverno l’ha già finita ed il figlio gliene fa sempre portare dell’altra. Quando arriva il camioncino a scaricare la legna, il vecchio non si alza nemmeno dalla sua poltrona, si fa piccolo e sembra voler sparire. La casa è percorsa dall’aria estranea di gente sconosciuta. Al vecchio, questo, non piace.

…continua



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